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venerdì 23 novembre 2012

Diario di Pechino - terza puntata

                                  biglietti d'ingresso a YiHeYuan (Palazzo d'Estate)

9 luglio 2011

Per la prima volta ho dormito a lungo. Mi ero svegliata alle due di notte, poi subito riaddormentata. Sono le nove passate quando finalmente mi alzo.
Solitamente sono sbrigativa, non perdo tempo nel fare le cose. Qui è diverso. Vado avanti e indietro tra la camera e il bagno e tra la camera e il balcone. Tiro fuori una cosa dall'armadio poi di nuovo vado a prendere un'altra cosa. Frugo nella borsa alla ricerca di qualcosa che poi dimentico e quindi torno a prenderne un'altra. Sento che tutto il mio essere ha bisogno di tutto questo tran-tran per abituarsi a qualcosa che non riesco a decifrare. Perdo un'ora e mezza prima di riuscire ad uscire.

Per prima cosa devo sistemare la faccenda del telefonino. E ' nuovo e non sono ancora riuscita a fare una telefonata. Una voce diceva che la scheda non era abilitata alle chiamate internazionali, nemmeno utilizzando le carte telefoniche.

Nel negozio il mio venditore é impegnato con dei clienti ma mi da retta lo stesso. Dopo diverse telefonate viene fuori la proposta definitiva: devo comprare da loro una scheda prepagata specifica e con quello dovrei farcela. Non ho i 200 yuan con me e con ciò la faccenda è rimandata all'indomani.

In borsa ho si e no 70 yuan. Prendo l'autobus e arrivo a Yiheyuan. L'entrata costa 60 yuan. Provo a mostrare la mia tessera universitaria et voila: il costo ora è 15 yuan. Sono contenta come pochi.

Nel parco ci sono tanti edifici. Ovunque esseri umani eccitati e sudati. Donne, uomini, bambini. File alle casse. Guide turistiche col microfono. Passeggini e palloncini. Tutine e cappellini. Tutti vestiti a festa.

Sono fortunata. A Pechino, in questa città di caldo e di smog, è difficile vedere un cielo azzurro d'estate. Eppure da quando sono qui, a parte il primissimo giorno, il cielo sereno resiste. Soffia un venticello fresco dal lago e si sta proprio bene sulla prua del battellino.  E' solo dopo che, ad onta del venticello, sono costretta a versarmi l'acqua sulla testa per resistere.

Uno dopo l'altro visito tutti i luoghi d'obbligo. Ad un certo punto di nuovo mi sfiora l'alito della loro millenaria storia.  Sono seduta su un muretto, leggermente appartata. Sulla mia sinistra un tortuoso sentiero di pietra costeggia il muro del palazzo. Intorno diversi edifici minori nei loro cortili. All'improvviso vedo una serva passare furtivamente per andare ad incontrare il suo signore, suo amante, nel cortile antistante.
Passata la visione mi fermo a pensare come doveva essere regolamentata la loro vita in ogni minuscolo aspetto. Ogni cosa al suo posto. Forse anche troppo regolamentata per i gusti dei nostri tempi.


venerdì 16 novembre 2012

Diario di Pechino - seconda puntata









8 luglio 2011

E' venerdì pomeriggio. Sono rimasta sola in questo enorme campus. Le mie compagne di classe sono scappate via non appena ha suonato il campanello. Non le biasimo, nemmeno io vorrei un adulto tra i piedi durante il weekend. Ho pianto, mi sono lavata la faccia, ho pianto di nuovo e adesso sono calma.
Sono arrivata a Pechino tre giorni fa. Il viaggio è stato lungo ed estenuante ma mi aveva spronata quest'impresa non facile da portare avanti. Io sono talmente abituata alle imprese non facili; direi fin da quando mia madre mi portava in grembo.
Tuttavia le prime mosse sono state inaspettatamente facili, tanto che non mi ero nemmeno accorta di farle, salvo poi quasi addormentarmi in piedi, dopo aver così trascorso circa ventidue ore.
La mia compagna di stanza era oltremodo gentile, tanto che la notizia che per quasi tutto il mese avrebbe lasciato la camera tutta per me perché doveva fare un viaggio, per me non era un sollievo bensì un vero dispiacere. Separarmi da lei appena conosciutesi non mi sembrava fonte di gioia.
Le difficoltà si sono via via accumulate. Il cellulare non era abilitato per chiamate all'estero. Lo stesso cellulare prendeva sì internet ma non permetteva l'uso degli e-mail. Nel campus la maggior parte degli studenti usava il proprio computer, il mio l'ho lasciato appositamente a casa. La carta telefonica che avevo comprato andava bene per i cellulari, salvo per il mio. Un'altra carta telefonica con la quale avrei potuto chiamare all'estero dal telefono fisso in camera era introvabile.
Avevo parlato con mio figlio il giorno dopo l'arrivo e poi nulla. Nessuna notizia ricevuta, nessuna notizia inviata. Niente di niente. Bollivo dalla frustrazione. Intorno a me tutti si divertivano, si scambiavano e-mail, si mandavano sms, stavano ore col telefono all'orecchio. Tutti ma non io.

La notte che la mia compagna partiva avevo fatto un incubo: mio figlio teneva in braccio la mia gatta, Iris. Lei aveva il pelo arruffato ed era grande il doppio. Mi sono svegliata in piena notte col cuore in gola. Mi sono appisolata ed ecco che un brutto ceffo tentava di aprire la portiera della mia macchina. Io avevo schiacciato il bottone di sicurezza ma lui lo aveva aperto lo stesso e mi aveva costretta ad uscire. La trama proseguiva poi in un albergo dove la polizia aveva acciuffato i ladri che alla fine erano diventati tre, due uomini e una donna. Insomma non è stata una notte facile.

C'è stato un altro lungo giorno senza che riuscissi a sentire i miei cari, ma oggi, dopo aver trafficato un ulteriore ora e mezza nell'internet caffè, mi si è aperta la pagina della mia posta e quando ho letto la prima mail di mio figlio una lacrima mi è spuntata senza che me ne accorgessi.

E' sera. Oggi avevo parlato con X e con Y, avevo parlato con mia sorella in Ungheria. Adesso potrò farcela.

Sono andata fuori a cena. In principio ero indecisa tra andare fuori o restare a consumare la cena tutta sola in camera. In ogni caso al super ci dovevo andare, tanto valeva proseguire.
Lungo la strada una miriade di situazioni umane: quelle tristi e depresse della gente che s'affretta a rientrare in casa dopo aver comprato le ultime cose; il nonno che raccatta da terra un lungo pezzo di spago di nylon con cui trascinare il nipotino in groppa al triciclo; giovani e giovanissimi vestiti o malapena coperti di qualche pezzo di stoffa, spensierati, soli o in gruppo; madri con figlie; madri giovani e vecchie, una coppia di anziani ... mentre li sorpasso improvvisamente mi ricordo di pagine della loro storia recente di convulsioni politiche e di guerre; poi ancora anziani e poi gente che traffica con ogni sorta di cosa in mezzo alla strada; poi file di biciclette specie di bici con pedana portapacchi dalle dimensioni inimmaginabili e poi auto e taxi che vanno in ogni direzione quando il semaforo è verde ma anche quando è rosso ed è un miracolo che non succeda mai niente.
E poi c'è il sottoponte male illuminato dove a quell'ora smontano uno specie di mercatino dell'usato di soli mobili, per lo più divani.

Quattro delle più grandi università di Pechino si trovano su questa viale che, non a caso, si chiama xueyuanlu, vale a dire: viale delle università.
Superate tutte quante arrivo al mio quartiere preferito che è riuscito ad evitare la demolizione propagatasi in occasione delle costruzioni per le Olimpiadi del 2008. Qualche trasformazione era stata inevitabile ma è ancora un quartiere bello e vivace. Il mio è un ristorante semplice dal servizio molto “yiban”, cioè ordinario. A me, però, piace per la tranquillità che si respira, per il cibo buono ad un prezzo più che buono e per quello che si vede dalla finestra mentre si mangia.
La gente che passeggia sotto la finestra è decisamente poco formale, l'età media s'alza leggermente, si accoglie sprazzi di discorsi delle passeggiate dopocena concesse per digerire e per tirare tardi. Vedo persino un uomo in pigiama a braccetto con la moglie vestita normalmente. Guardare fuori dalla finestra significa anche essere guardati dalla strada, specie se sei uno straniero, è un piacere reciproco.

A pancia piena il rientro sembra molto più lungo. Mentre cenavo la sera è calata portando un buio pesto. Qui non ci sono tante luci, il minimo indispensabile. I venditori di mobili non ci sono più, trovo invece un carrellino di frutta e un altro di libri. Tra leggere e mangiare ognuno trova il suo, a quanto pare.

sabato 10 novembre 2012

Diario di Pechino 2011

Diario di Pechino  - prima puntata - a lato: simbolo della compagnia aerea disegnata durante il volo

4 luglio 2011 ore 14 di Milano
Siamo partiti con quaranta minuti di ritardo a causa di “eccessivo traffico”. In quei quaranta minuti non ho visto decollare né atterrare alcun aereo. Ma forse ero distratta.
Passati i quaranta minuti siamo decollati, uno dopo l'altro, cinque aerei in pochi minuti.
Il cielo era azzurro opaco. I tre motori sotto l'ala che vedevo dall'oblò diventarono color giallo-oro, un attimo dopo erano rossi per poi cambiare velocissimamente colore: prima rosa e poi grigi. Un tramonto veloce.
Aeroporto di Doha, sera
Ho girovagato per oltre mezz'ora. Non me la sentivo di fare delle compere al duty free, mi mancava la forza e l'energia per farlo. Era presto; avevo oltre cinque ore davanti a me. Il mio volo per Pechino partiva all'una di notte.
Cenare non avevo voglia. Il pranzo l'avevano servito durante il volo dopo le due e mezza quando dalla fame non riuscivo a star ferma. La colazione risaliva addirittura a un'altra epoca, difficile da ricordare.
Niente cena, dunque, almeno per il momento. Dalla galleria avevo intravvisto un paio di turbanti e relativi abiti di un bianco splendente. I signori erano seduti al bar che si trovava più lontano. Subito m'era venuta voglia di andarci. I tavolini in marmo, le sedie imbottite, legno e tappezzerie – tutto era così diverso dal resto. L'aeroporto è il più immenso che abbia mai visto, moderno e del tutto anonimo. Questo piccolo bar era un'eccezione preziosa.
Avevo ordinato un fruit-salad, giusto pronto per il mio palato arso e stavo infilzando il primo boccone di anguria con la forchettina quando avevo visto il prezzo: ventisette euro. Lo sapevo perché avevo prudentemente domandato alla cassa se accettavano l'euro; sì l'accettavano.
Non volevo fare la solita figura da spilorcia ma ventisette euro sono troppi, così l'avevo rifiutato domandando alla cassiera: “Are you sure it costs twentyseven euro?” L'enghippo s'è presto sciolto, il prezzo tradotto era meno di sette euro, così ho rincuorato il giovane cameriere che mi ha riportato il povero piatto.
Aeroporto di Doha, più tardi
Devo aver lasciato due euro di mancia per sbaglio, tenendomi la banconota locale di nessunissimo valore. Sarà stato questo e la mia borsa nepalese new age, fatto sta che un cameriere, si seppe poi che era nepalese, mi aveva dato una dritta: se la coincidenza era così tardi la notte si aveva diritto alla cena gratis. Sarei andata comunque in quella mensa in ogni caso perché servivano delle pietanze dall'aspetto rassicurante. Così, in più, avevo cenato gratis: riso brasmati a volontà e fettine di manzo (poche) in una salsa piccante buonissima, tale che avevo fatto fuori la quantità industriale di riso che m'avevano dato.
Non avevo più una lira locale ma desideravo tanto di scolarmi una bottiglietta di birra analcolica che servivano in quel bar dall'aspetto intimo. Dovevo assolutamente arrivare alle undici – undici e mezzo prima di lasciarmi andare sulle poltrone del mio gate. Erano soltanto le nove meno un quarto, ancora due ore e mezzo e intanto sentivo avanzare l'idea poco confortante del sonno.
Per fortuna anche all'ora della mia partenza ci saranno diversi voli. Dal mio gate partiva uno per Hanoi alla una.
Sotto il finestrone della mensa i pullman vomitano turisti in arrivo. E' una città questa, non un aeroporto. All'improvviso non ho per niente sonno. Fuori ci sono quaranta gradi precisi-precisi, qui dentro a malapena s'arriva a venti. Ho messo lo scialle sulle spalle. Tra la borsa nepalese e lo scialle pachistano (Made in China) sono ben inserita nella fauna presente. Mamme col velo integrale che sgridano le figlie piccole, vestite all'occidentale. Chissà con che occhiata sgridano le figlie quando per gli occhi non vi è che una fessura. Fossi io la bambina le farei delle pernacchie.
Il mio vicino di tavolo è pachistano: naso preciso, occhi che ti risucchiano l'anima. Capelli con la brillantina o senza – sembra non faccia differenza. Ci scambiamo pochi frasi e me ne vado, mi troverà lui più tardi mandandomi un saluto con la mano da lontano. Ha il mio email.
Aeroporto di Doha, più tardi
Alla fine la macchina fotografica l'ho comprata lo stesso. Forse non era il tipo giusto ma era in offerta con più megapixel, memoria in omaggio... , insomma l'ho comprata e basta.
Mancano ancora troppe ore.
La birra più che analcolica sembra un succo. Un succo di frutta con la schiuma. Bello schifo. Pazienza, me la scolo e poi mi fiondo nella camera buia dove ci sono i chez-longue.
Aeroporto di Doha, 5 luglio
Fatto il boarding l'autobus s'affretta verso il nostro velivolo che però non c'è o almeno così mi sembra. Un po' spaventata mi rivolgo agli altri ma loro ci ridono sopra: l'aeroporto è talmente vasto che per arrivare all'aeroplano avrei fatto sei-sette fermate con la cinquanta. Non avrei mai immaginato che l'indomani a Pechino avrei preso lo shuttle per andare a ritirare i bagagli. Non si finisce mai di imparare.



mercoledì 7 novembre 2012

Benvenuto Welcome 欢迎 Sziasztok

Benvenuto a tutti quelli che, per interessi di vario natura, mi seguono.
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