17 luglio 2011 - Pechino
Sono rientrata all'università
dopo la gita di due giorni e mezza. La camera mi ha accolta con la
sua familiarità, la doccia era rinfrescante come al solito.
Prima non avrei potuto immaginare di trovare piacere entrare in
questa stanza. Le cose cambiano, sto cambiando anch'io. Trovo, ad
esempio, piacevole riavere le mie cose, la mia privacy, le cose cui
mi ero abituata in queste due settimane e mezzo. Vivere lontano dai
cari è duro. Tuttavia man mano che si scoprono dei piccoli
piaceri come questo ritrovamento del proprio alcove, ecco che i morsi
della nostalgia perdono potere. Continuano ad esserci ma non sono più
loro i padroni del bello o brutto tempo.
Sono stata in gita con gli altri
studenti, un giorno in Mongolia (la parte cinese) e uno a Datong,
capitale dell'imperatore mongolo Wei e della sua non breve dinastia.
Tutti i popoli avevano sofferto le
scelte dei loro governatori. Quelle di Wei erano le meno spiacevoli
da subire; avevano solo dovuto convertirsi al buddismo. Stupendo.
Farei la firma. La scelta di introdurre il buddismo nel regno della
grande uguaglianza (Datong) era servita per sedare la popolazione,
allora troppo turbolenta.
Era troppo tardi, quando circa
cent'anni dopo, una discendente aveva capito che il popolo buddista
smise sì di essere un pericolo sociale ma nel contempo smise
anche di lavorare.
Sotto il cielo non lavorava più
nessuno. Tutti in preghiera e meditazione. Fantastico.
Il seguito era caos, roghi, uccisioni
delle guide spirituali e poi la magnificenza delle immagini dei
cinque imperatori consecutivi a misura sovrumana, scavati
direttamente nella roccia della montagna.
Doveva essere un evento come l'eclisse
nell'Antico Egitto. Il popolo – quello scampato ai roghi – di
fronte a simile monumentalità doveva sentirsi meno di uno
scarafaggio.
Oggi nessuno ha tempo per domandarsi
come ci si sente.
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